L'emodialisi extracorporea, che d'ora in avanti chiameremo semplicemente dialisi, è una terapia medica in grado, attraverso un apposito macchinario, il cosiddetto
, di vicariare parzialmente la funzione dei reni quando questi presentino un danno severo, acuto o cronico, tale da non renderli più in grado di svolgere quasi del tutto la loro funzione di depurazione del sangue e mantenimento dell'equilibrio idrosalino.
L'AVVIO DELLA DIALISI
Circa il 10% della popolazione mondiale è affetto da una malattia renale cronica, spesso silenziosa o scarsamente manifesta.
In Italia e nei paesi sviluppati in genere le prime due cause riconosciute sono il danno cronico indotto dall'ipertensione arteriosa e dal diabete mellito.
Nei pazienti in cui la malattia renale evolve progressivamente fino agli stadi più avanzati, o in coloro che sviluppano un danno renale acuto, reversibile o meno, di varia natura, si possono sviluppare una serie di segni o sintomi che inducono il Nefrologo ad avviare un trattamento sostitutivo della funzione renale, la dialisi.
Se nell'immaginario comune la funzione renale equivale alla creatinina, non esiste in realtà un valore di riferimento al di sopra del quale si indica l'avvio della dialisi.
La creatinina è infatti solo uno dei numerosi parametri, sia laboratoristici che clinici, su cui il Nefrologo si basa per decidere il corretto momento di avvio della dialisi.
La scelta avviene pesando l'importanza di quella condizione chiamata tecnicamente
uremia con cui si individuano tutte le alterazioni cui il paziente va incontro nelle fasi più avanzate di malattia renale e che inducono all'avvio della dialisi. Fra questi i parametri più rilevanti sono tre: un possibile sovraccarico volemico, non responsivo ai farmaci detti diuretici, dato da una insufficiente produzione di urina rispetto ai liquidi quotidianamente introdotti nell'organismo con l'alimentazione; un significativo aumento di concentrazione dei valori di potassio nel sangue, sostanza del nostro organismo in condizioni normali finemente regolata da parte dei reni ma che in caso di malattia renale avanzata può andare incontro a un progressivo incremento fino al rischio di complicazione cardiache anche severe; una progressiva acidificazione del sangue, anch'essa normalmente ben regolata dai reni, dovuta a una mancanza di bicarbonati e in grado di causare gravi problemi al paziente.
Accanto a queste complicanze che spesso inducono il Nefrologo ad avviare la dialisi anche in urgenza, vi sono tutta una serie di segni e sintomi, dalla nausea, all'inappetenza, all'astenia al prurito che, correttamente inquadrati all'interno dell'effettivo stadio di malattia renale del paziente, possono influenzare in maniera fortemente negativa la sua qualità di vita e indurre pertanto il Nefrologo a programmare l'avvio della dialisi.
L'ACCESSO VASCOLARE
La prima condizione da considerare nel momento in cui si rende necessario avviare la dialisi è quella della scelta dell'accesso vascolare.
Come già detto la prima scelta risulta essere la fistola artero-venosa, soluzione ideale che consente l'esecuzione di sedute dialitiche con validi flussi ematici attraverso due aghi, uno definito
arterioso che preleva il sangue dal paziente verso il rene artificiale e uno
venoso che lo resistuisce depurato al paziente.
Gli aghi vengono rimossi al termine della seduta senza lasciare alcun presidio esterno salvo una medicazione compressiva per evitare fenomeni di sanguinamento. Questa, tuttavia, non sempre può essere praticabile sia per problemi di patrimonio vascolare, talora insufficiente a creare un accesso adeguatamente performante come spesso capita nei pazienti anziani affetti da diabete o da malattie vascolari croniche, che di tempistica.
I tempi di programmazione del confezionamento di una
fistola artero-venosa dipendono dall'organizzazione di ciascun Centro Dialisi ma al di là del mero intervento chirurgico, che in genere richiede un ricovero in regime di Day Hospital e una anestesia locale, vi è da considerare l'indispensabile rispetto dei tempi di guarigione della ferita chirurgica e di adeguata
maturazione dell'accesso vascolare creato.
Questi in media richiedono alcune settimane e mal si conciliano con un'eventuale necessità di avvio della dialisi in regime di urgenza.
In questi pazienti o in coloro con problemi vascolari tali da rendere non praticabile anche il confezionamento di una fistola
protesica, l'altra opzione praticabile è quella di posizionare un catetere venoso centrale.
I
cateteri venosi centrali per dialisi sono dispositivi fatti con polimeri biocompatibili, morbidi e con una certa capacità elastica, che possono essere posizionati, in genere in anestesia locale e guidati dall'utilizzo dell'ecografia, all'interno di vene di grosso calibro, come la vena giugulare del collo oppure la vena femorale della gamba.
Essi sono in grado di fornire un adeguato flusso di sangue al loro interno, tale da effettuare una seduta dialitica. La scelta della sede di posizionamento del catetere dipende dalle caratteristiche dei vasi sanguigni del pazienti e dall'utilizzo previsto: se di breve termine viene più frequentemente introdotto in vena femorale e risulta non tunnellizzato, cioè fuoriesce dalla cute direttamente a livello del sito di introduzione nella vena, ancorato alla cute con punti di sutura o altri sistemi; se a lungo termine viene prediletta, ove possibile, la vena giugulare destra e si utilizzano cateteri definiti tunnellizzati perchè effettuano un decorso sottocutaneo di alcuni centimetri fra il sito di immissione nella vena e quello di fuoriuscita dalla cute, a scopo sia di ancoraggio che di barriera dalle infezioni. Se da un lato il vantaggio di tali tipi di accessi vascolari risiede nella possibilità di un utilizzo immediato dopo il loro posizionamento, la loro scelta risulta limitata alle condizioni sopra citate perché sono maggiormente soggetti rispetto alle fistole sia a fenomeni di malfunzionamento che, soprattutto, d'infezione.
IL TIPO DI DIALISI
Nel momento il cui il paziente ha il proprio accesso vascolare il Nefrologo deve prescrivere il trattamento dialitico regolando in particolare, durata, frequenza e intensità dello stesso. Mentre per il paziente affetto da un danno renale acuto tali parametri possono variare sensibilmente in base al quadro clinico generale, fino alla necessità di effettuare il trattamento continuativamente 24 ore su 24 per giorni o settimane, come accade all'interno delle terapie intensive,
il tipico regime dialitico del paziente affetto da malattia renale cronica di grado ormai avanzato è caratterizzato da tre sedute settimanali a giorni alterni oltre alla pausa domenicale, della durata di 4 ore ciascuno. Tale durata, che può a primo impatto apparire oltremodo lunga per un paziente, è in realtà giustificata dalla mole di lavoro che il rene artificiale svolge nel corso del singolo trattamento.
Durante una seduta emodialitica, il sangue attraversa l'intero circuito del rene artificiale sino al
cuore dello stesso:
il filtro. E' proprio all'interno del filtro dove la dialisi ha effettivamente luogo. Il filtro dialisi non è altro che un cilindro contenente un gran numero di fibre cave che decorrono parallele fra di loro e al cui interno scorre il sangue del paziente.
Fra una fibra e l'altra scorre in direzione opposta un liquido appositamente precostituito, chiamato liquido di dialisi o
dialisato. Attraverso la membrana che riveste le fibre del filtro in cui scorre il sangue, che risulta essere semipermeabile, le scorie che si accumulano nel sangue del paziente affetto da malattia renale avanzata vengono progressivamente rimosse sfruttando un semplice principio di fisica: la diffusione. Questa si basa sul fatto che se io metto a contatto due liquidi contenenti una sostanza a diversa concentrazione, tale sostanza tenderà a passare dal luquido a maggior concentrazione a quello a minore fino a raggiungere l'equilibrio.
Tale principio alla base dei trattamenti dialitici consente di ridurre la concentrazione nel sangue di molte sostanze, dalle più note creatinina, azotemia, acido urico, potassio, ad altre non comunemente dosate dai laboratori ma non meno importanti per il processo di depurazione dell'organismo.
Affinché la dialisi risulti efficace non è sufficiente che il sangue transiti una sola volta all'interno del filtro ma sono necessari numerosi passaggi. Basti pensare in una seduta dialitica classica di 4 ore, in cui il sangue circola attraverso il circuito del rene artificiale a una velocità di 300 millitri al minuto, transitano nel filtro dialisi circa 72 litri di sangue, pari a oltre 14 volte l'interno volume di sangue, in genere 5 litri, di un paziente normotipo.
La dialisi non si riduce tuttavia a un solo passaggio di sostanze dal sangue al liquido di dialisi ma svolge altre azioni importanti. Uno è la correzione dell'acidificazione del sangue tipica della malattia renale, sia acuta che cronica.
Ciò avviene semplicemente sfruttando al contrario il meccanismo di passaggio attraverso le membrane del filtro facendo transitare molecole di bicarbonato dal dialisato, dove si trovano a maggior concentrazione, al sangue.
L'altro compito fondamentale garantito dalla dialisi è quello di mantenere l'adeguato bilancio di liquidi corporei. Dal momento che spesso il paziente che effettua le sedute dialitiche tende come detto a trattenere liquidi in eccesso, con la dialisi è stato reso possibile rimuovere questi liquidi, in quantità regolata attentamente dall'operatore al fine di non causare eventi avversi quali ipotensioni e crampi, sempre attraverso il filtro. In questo caso ciò avviene creando una pressione di aspirazione che favorisce il passaggio di acqua dal sangue al dialisato.
Se la seduta dialitica classica dura come detto 4 ore e viene ripetuta tre volte alla settimana, questo schema di trattamento non vale per tutti i dializzati. Talvolta i pazienti in dialisi conservano una quota di funzione renale e di diuresi residue, non sufficienti di per sé a garantire il benessere dell'organismo ma utili per collaborare con la dialisi offrendo la possibilità di ridurne la durata (3 ore, 3 ore e mezza), o la frequenza (1 o 2 sedute alla settimana). La prescrizione della dialisi non è immutabile nel tempo e viene anzi costantemente revisionata dal Nefrologo sia visitando il paziente, a esempio misurando con appositi letti o poltrone bilancia, su cui il paziente effettua le sedute dialitiche, l'aumento di peso e conseguentemente di liquidi fra una seduta e l'altra, sia valutando attraverso parametri di laboratorio i livelli di depurazione ottenuti con il regime dialitico in atto.